Il rischio insito nel condurre un atelier, è quello di oscillare tra l’eccessiva attenzione data all’aspetto tecnico per fini estetici e l’eccessiva attenzione data all’aspetto psicologico espressivo a discapito di un risultato accettabile e migliorabile.
Questo avviene anche perché in Italia la figura dell’arteterapeuta non è stata regolamentata, pertanto le scuole di arte terapia sono rivolte sia a psicologi e operatori sanitari, che agli artisti e agli educatori, mentre, sarebbe auspicabile la formazione ed il riconoscimento legale di una professionalità specifica nel settore che sappia integrare sia l’aspetto artistico che quello psicologico, operando una sintesi tra forma e contenuto, tra utilizzo del codice ed espressione di sé.
Due sono i fattori principali da tenere presenti, il poter contare su un saldo inquadramento teorico e metodologico, che non lascia spazio all’improvvisazione e il saper trasmettere il lavoro fatto nell’atelier, al resto dell’equipe, in modo da essere riconosciuti come parte integrante del processo di cura o di prevenzione.
Di particolare valore è la supervisione, che è strumento fondamentale di formazione per ogni professione di aiuto
La psicoterapeuta Elena Giordano, svolge da quindici anni attività di formazione e supervisione per arteterapeuti, pur dedicandosi principalmente al trattamento di pazienti psicotici, fornisce elementi preziosi al fine dell’organizzazione del setting analitico all’interno di un atelier di pittura.
Elena Giordano esprime due premesse fondamentali:
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“Per avere comunicazione, e quindi terapia, deve esservi una relazione tra due soggetti e non esiste nessuna tecnica rieducativa o terapeutica che possa esimersi dal farsi carico di tale relazione, anche se essa può avvenire tramite mediatori diversi (gesto, elaborato artistico, parola)”;
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“E’ essenziale che le due persone condividano il codice in cui viene o verrà trasmesso il messaggio”;
Precisa inoltre, che lo spazio dedicato all’atelier è un luogo in cui è possibile dire e rappresentare tutto, ma con la libertà e le regole proprie dell’arte, mantenendo una certa privacy che, pur permettendo la comunicazione e lo scambio di idee all’interno del gruppo, consenta di non mostrare a chiunque ciò che viene realizzato.
I tempi per l’esecuzione dei lavori possono non esaurirsi in un’unica seduta, il protrarsi nel tempo di un lavoro, può avere la valenza positiva di dare un senso di permanenza nel tempo e nello spazio, di favorire il crearsi di un percorso narrativo attraverso le immagini, inoltre la serie dei lavori eseguita, da il senso di una progressione, di un cammino fatto che va perfezionandosi.
L’atelier ha bisogno sia di luce che di spazio, perché si dipinge con tutto il corpo, nella pennellata si mette in gioco tutta la postura e tonicità dei muscoli, è necessario dipingere in piedi davanti al cavalletto in modo da consentire il libero movimento della persona che può allontanarsi e avvicinarsi al disegno, ciò permette di cogliere sia i particolari che la visione globale del dipinto, in modo da entrare e uscire dal lavoro che si compie.
L’arteterapeuta deve avere esperienza di tutte le tecniche per riuscire a guidare il paziente verso quella a lui più congeniale, non esistono materiali privilegiati, si possono utilizzare pastelli, matite, acquerelli, tempere.
L’apprendimento delle tecniche non va sottovalutato, per esprimersi figurativamente occorre disporre di un ricco bagaglio artistico, maggiori saranno le conoscenze, migliore sarà la capacità espressiva.
Ciò che distingue questa terapia è la consapevolezza del valore metaforico di ciò che viene prodotto, grazie alla mediazione artistica, la relazione terapeutica produce una dialettica tra il mondo soggettivo e quello oggettivo, che, attraverso la produzione del simbolo, attribuisce agli oggetti creati e alla loro evoluzione il valore metaforico di cambiamento della vita stessa del loro autore.
Anne Denner nel suo “L’expression plastique”, scrive :
“L’atto stesso di dipingere e soprattutto di modellare è in sé un’attività riparatoria di frustrazioni arcaiche…L’oggetto creato, col suo significato simbolico, è una manifestazione tangibile della problematica di ciascuno, ma il ‘fare’ sensorio-cinetico vissuto a livello del corpo, il più spesso inconsciamente, è una tappa della ristrutturazione…così (il paziente) entra in contatto col mondo…è la sintonia ritrovata”.1
La possibilità di regressione offerta dal mediatore simbolico, consente al paziente di concretizzare nella materia immagini che, restituiscono al loro autore la sensazione di poterle controllare, senza correre il rischio di esserne sopraffatto.
L’intervento non si deve però limitare alla regressione, ma deve lavorare in vista di una evoluzione, di un progresso, l’uso della parola, è comunque una meta verso cui tendere, che interviene dove il lavoro eseguito non sia immediatamente leggibile, cercando di stabilire un contatto che miri al miglioramento del prodotto nei suoi aspetti formali ed estetici.
Inoltre gli interventi devono essere strutturati in un contesto che sottolinei l’importanza di quello che viene fatto, senza cadere nell’errore di chiamare “gioco” il lavoro svolto nell’atelier, questo atteggiamento sarebbe una disconferma dei contenuti espressi dal paziente, che necessita invece di accettazione e conferme. 2
All’interno della seduta, bisognerà evitare di cadere in interpretazioni del quadro come se fossero equivalenti di sogni, Freud infatti riteneva l’arte come “la via per il sogno di trovare la strada della realtà”, l’elaborato artistico è la sintesi tra espressione di se e strutture formali atte a contenerla.
E’ opportuno inserire nell’atelier sempre un terzo elemento, che crei una triangolazione tra paziente e terapeuta, inserendo elementi dinamici favorevoli ad una sua evoluzione, questo referente esterno può essere costituito dal resto dell’equipe, come psichiatri e psicoterapeuti, sempre presenti e necessari se ci si trova in una realtà istituzionalizzata, o da qualunque elemento esterno al setting che permetta di trovare nuovi stimoli e ci sottragga al rischio di una intimità troppo fusionale.
Vorrei concludere con le parole di Elena Giordano:
“Sottrarsi al fiume caotico delle proprie emozioni, fantasticherie, immagini interne senza abdicarvi, ma metterle in contatto col mondo esterno, utilizzandole per costruire una forma organizzata, plausibile e significativa anche per gli altri, è il modo creativo di dare ordine al caos, di contemperare soggettività e oggettività, di trasformare la materia attribuendole un senso: se ciò avviene spontaneamente negli artisti è per i nostri pazienti una meta, che però deve restare l’obiettivo del nostro setting terapeutico”3
1 Denner A. L’expression plastique E.S.F. 1967
2 Vittorio Sconci, “Arteterapia quali rischi?” VIII Congresso Nazionale S.I.P.S. 17 Novembre 2005
3 op. cit. pag.64
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