Linguaggio e sogno

L’accesso al mondo dell’inconscio, trova quale strumento privilegiato, l ‘uso delle immagini, esse consentono, infatti, la possibilità di trasformare contenuti emotivi, a volte non esprimibili verbalmente, in forme che esprimono invece tutta la loro valenza emozionale, e che, solo successivamente, possono essere verbalizzate e tradotte in modo da essere assimilate dalla coscienza.

Le immagini, sono quello che ricordiamo dei sogni, forme di senso che cercano una narrazione per poter nascere e diventare parte integrante della nostra vita.

Il setting analitico, offre il contenitore entro il quale queste forme possono essere rappresentate, favorendo l’ingresso nel mondo dell’inconscio in modo fluido, senza correre il rischio di perdersi.

Ne “I simboli della trasformazione”, Jung descrive il “pensiero per immagini” come una infaticabile attività mentale che, a contatto con il mondo immaginale, tende a riordinare contenuti psichici costruendo nessi, alla ricerca di significati.

Ma non tutte le immagini sono simboli, e quindi capaci di trasformazione. Jung distingue il segno dal simbolo e afferma che un segno “ha un significato fisso, essendo un’abbreviazione (convenzionale) che sta per una cosa conosciuta oppure è un rimando a quella cosa medesima”, invece, il simbolo indica un contenuto polisemico, non definibile e non convenzionale, esso “possiede numerose varianti analoghe, e più ne ha a disposizione tanto più completa e appropriata è l’immagine che abbozza del suo soggetto”.

Il simbolo è vivo per Jung solo finchè mantiene questa caratteristica, egli rappresenta tensione tra opposti, tra conscio e inconscio, tra noto e non noto, nel momento in cui il simbolo partorisce il suo significato, muore e si trasforma in segno. Dando un nome alle cose che non conosciamo ancora, compiamo “un’azione storica di assegnazione di significati”, in tal modo, il simbolo esce dal regno della magia per entrare in quello delle convenzioni, esaurisce la sua funzione di mediatore e muore.

Ogni fenomeno psicologico, per Jung è un simbolo, in quanto si suppone che significhi qualcosa che si sottrae alla nostra coscienza, ma ciò dipende anche dall’atteggiamento di chi osserva, per Jung infatti, non esistono contenuti simbolici se non per una coscienza che li crea, il simbolo non è un significato, ma un’azione che mantiene in tensione gli opposti dalla cui composizione possono nascere i processi trasformativi.

Nell’attuale periodo storico, il pensiero, inteso come elemento di differenziazione nello sviluppo e nell’evoluzione della coscienza, non affonda più le sue radici nei miti, e ha girato lo sguardo verso il tramonto, verso il sol niger, e come nell’alchimia, la nigredo conduce l’Anima Mundi e la terra, “la colomba, tertium oppositiorum, simbolo dell’unione, è rimasta a terra piuttosto che librarsi nell’aria per congiungere ciò che il divino e il religioso ha sempre unito”.

La verticalità del pensare ha ceduto il passo al pensiero orizzontale, appiattito e omologato, dove non c’è più posto per la tolleranza e la diversità. Gli attuali atteggiamenti di intolleranza per il le diversità culturali e religiose, si sono esasperate a causa di una polarizzazione della religiosità, che ha perso la sua funzione simbolica, di congiunzione tra cielo e terra, tra conscio e inconscio, per divenire una rigida struttura che non può accogliere e che separa l’uomo da se stesso, e dal suo simile.

L’immaginazione resta allora una possibilità di trasformazione, pensare per immagini è uno stile particolare di pensiero, il pensiero laterale, che non segue una linea di causa-effetto, ma ha il suo nucleo nella conoscenza analogica, che segue percorsi diversi, punti nodali connessi da un senso che ha vita propria e si nutre del mito e del mondo degli archetipi.

Nelle sue esperienze terapeutiche di gruppo, in varie parti del mondo, Wilma Scategni, analista junghiana, ha potuto sperimentare come, nell’incontro tra popolazioni molto diverse tra loro, l’uso delle immagini si riveli davvero preziosa al fine di condividere contenuti emotivi, superando le diversità linguistiche e culturali.

In questi gruppi, il pensiero razionale viene completamente spiazzato, una o più immagini univoche possono improvvisamente rivelare nuove aperture, nuovi significati, vissuti e condivisi in modi diversi per ciascuno, in relazione alle proprie radici etniche. Un ruolo fondamentale è giocato dal continuo passaggio dal “segno” al “simbolo”, e ciò è possibile proprio grazie alle diverse provenienze dei partecipanti.

Lo “spaesamento” dovuto al fatto di trovarsi tutti insieme, diversi per culture, in un luogo straniero, dove il linguaggio è impedito o limitato dalla compresenza di diversi idiomi, produce senso di caos e destrutturazione, e favorisce nuove capacità di ascolto del proprio mondo interno e dell’”altro da sé”.

“Ogni immagine che attrae, suscita curiosità o interesse e può essere condivisa, è una finestra che apre a una comunicazione elementare, inizialmente grezza, ma che permette di accedere, attraverso la relazione, a forme di apprendimento linguistico-relazionale via via più approfondite”.

La continua relativizzazione dei valori di riferimento, lascia spazio ad una umiltà di fondo che facilita la relazione, al termine di una sessione, è possibile assistere alla creazione di un lessico gruppale, una lingua in gran parte sconosciuta, ricca di neologismi, dove immagini e parole si intrecciano a formare una storia comune condivisa.

Nei gruppi, come nell’analisi individuale, il setting si fa garante dei confini contenitivi, e la ritualità, ovvero l’incontrarsi sempre alla stessa ora nel medesimo luogo, fa parte della capacità di contenimento del setting. Nella struttura del “Granata IAGP Academy” si lavora attraverso l’esperienza transculturale sul tema dell’incontro concreto tra mondi e culture diverse. I partecipanti si incontrano cinque giorni all’anno sempre nel medesimo luogo, si tratta di conduttori di gruppi terapeutici e formativi dell’area europea, mediterranea e dell’area iberoamericana, con qualche rappresentanza palestinese, israeliana e marocchina. La scelta di Granada come sede è simbolica in quanto luogo storicamente intermedio di incontro tra mondi e culture.

Un altra realtà di gruppi di lavoro interculturali è Eranos, realizzata nel 1933 da Olga Froebe ad Ascona, in Svizzera, in armonia col pensiero junghiano, ha gettato ponti tra culture, reti relazionali e matrici. Olga Froebe parlava di un inconscio di gruppo, anticipando concetti ormai consolidati sulla creazione e conduzione di gruppi analitici e terapeutici. In questo luogo, per anni si sono incontrate le religioni del mondo attraverso una comune ricerca di immagini e forme di spiritualità. Era qui che si svolgevano le Eranos Tagungen, conversazioni finalizzate allo “studio delle immagini e delle forze archetipali nei loro rapporti con l’individuo”, e più in generale all’esplorazione dei mondi interiori dell’uomo, condotta attraverso le metodologie scientifiche proprie di ognuno dei partecipanti.

A proposito di un inconscio di gruppo, Scategni sottolinea il parallelo tra la funzione individuale dell’io, quello che Jung definisce “complesso dell’io”, in quanto gestore delle diverse entità dell’inconscio, e il ruolo del terapeuta di gruppo, che deve essre mediatore tra i singoli componenti del gruppo, creando relazioni, comunicazione, come se si trattasse di “parti” di un unico sé gruppale.

I luoghi dove si svolgono gli incontri, hanno una valenza simbolica, la vicinanza di boschi, laghi, l’incontro con la natura, favoriscono una migliore connessione col proprio inconscio, permettendo alla quotidianità, con i suoi ritmi pervasivi, di rimanere sullo sfondo. Anche la configurazione spaziale che viene assunta dal gruppo terapeutico ha una funzione facilitante a fare emergere emozioni, immagini, e a creare una forte senso di appartenenza e di condivisione. La forma di cerchio mandalico, rappresenta una totalità riflessa del sé, equidistanza dal centro, possibilità di guardarsi tutti negli occhi, cogliendo tutte le sfumature emozionali dei partecipanti.

Se il cerchio rimanda ad una forma temporaneamente chiusa, la spirale utilizzata nel Social dreaming è una configurazione più aperta e flessibile. Il Social dreaming spesso è inserito nel time table, sotto forma di on going group, restituendo ogni mattina, al gruppo, le immagini notturne evocate dal processo in atto, si svolge nelle prime ore del mattino e la struttura a spirale permette ai partecipanti di aggiungersi al gruppo secondo i propri tempi.

Chiara Miranda

Il Social Dreaming è una tecnica di lavoro con i gruppi che porta alla luce il contributo che i sogni possono offrire alla comprensione della realtà sociale ed istituzionale in cui si vive e si lavora. Partendo dall’assunto che”I sogni non sono solamente proprietà privata del sognatore, ma appartengono al contesto più ampio del quale egli fa parte: il posto che il sognatore occupa nella vita quotidiana e il suo ruolo personale e lavorativo. Una volta sognati, i sogni possono essere applicati con successo ad uno scopo comune e diventare informazione per qualsiasi sistema del quale il sognatore sia membro” (Lawrence – 2002), il sogno può essere usato come linguaggio, come strumento per pensare in modo nuovo, costruendo nei gruppi (di lavoro o di formazione) un dialogo basato sulla libera associazione, la matrice di Sogno Sociale offre lo sfondo su cui costruire esperienze gruppali. La costruzione della matrice di sogno sociale, che è al cuore della tecnica, si sviluppa in una serie di incontri coordinati da uno o più conduttori e prevede da 3 a 5 sedute di gruppo, ciascuna della durata di un’ora e mezza.

Le Matrici di Sogno Sociale favoriscono un’interazione fluida e non gerarchica tra i partecipanti e lo sviluppo di connessioni e conversazioni ‘significative’, piu’ riccamente connesse alla verita’ emotiva.

Anche nei gruppi ispirati allo Psicodramma di Moreno, viene posta molta attenzione al processo creativo, attraverso la drammatizzazione e la regia del conduttore, prende forma un cosmo relazionale, il protagonista, nel ricordare scene significative del suo passato evoca immagini che possono essere drammatizzate rivivendone le emozioni.

Nel lavoro basato su una formazione junghiana, viene posta l’attenzione sugli echi emergenti dall’inconscio del gruppo e dei singoli partecipanti, e sulle loro interazioni, nel corso dell’esperienza, i feedback di restituzione al gruppo, possono essere aperti a più significati, possibili, infine, la sequenza delle immagini che si costellano, assumono la forma di una biografia immaginale del gruppo stesso.

Fino al 1998 ai colloqui di Eranos – incontri annuali, da sempre internazionali e multidisciplinari e i cui atti venivano pubblicati negli Eranos Jahrbuch – parteciparono intellettuali dediti a discipline diverse  che però condividevano, tutti, l’attività di ricerca, e un orientamento culturale interdisciplinare a tonalità, in senso lato, (fonte Wikipedia).

Biblografia:

  1. S. Arieti Creatività, la sintesi magica Ed. Il pensiero scientifico 1979

  2. Edinger   Anatomia della psiche  Biblioteca di Vivarium

  3. Carl G. Jung “Simboli della trasformazione” in Opere, Bollati Boringieri

  4. W.Scategni, Ponti trans-culturali attraverso le immagini, in “Jung e le Immagini” (a cura di F.Vigna) Moretti e Vitali Editori 2010

  5. W.Scategni, Ponti trans-culturali attraverso le immagini, in F.Testa, “Il volo dell’angelo” Bonanno Editore 2011

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L’attaccamento.

bimbi

“Il comportamento di attaccamento è quella forma di comportamento che si manifesta in una persona che mantiene una prossimità nei confronti di un’altra, chiaramente identificata, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Questo comportamento diventa evidente ogni volta che la persona è spaventata, affaticata o malata, e si attenua quando si ricevono conforto e cure” (Bowlby, 1988).

Nella vita di ognuno di noi, lo stile di attaccamento si manifesta come un insieme di regole tacite e spesso inconsapevoli, che guidano il nostro comportamento, al fine del raggiungimento di un obiettivo.

Alla nascita, il lattante si sente intimamente fuso con la madre dalla quale dipende la sua sopravvivenza, egli si aspetta che ogni suo bisogno venga soddisfatto senza interferenze, nei brevi momenti di separazione dalla madre, può provare una enorme angoscia legata al timore che venga messa in pericolo la sua stessa vita.

Per un bambino, la figura dell’adulto di riferimento, è essenziale perché col necessario sostegno, garantisce sicurezza fisica e psichica. Questo sostegno costituisce la “base sicura” dalla quale il bambino può partire per la sua esplorazione del mondo esterno, egli inoltre sa che può tornarvi in qualunque momento, perché sarà sempre accolto amorevolmente, consolato se triste, rassicurato se spaventato. Il ruolo del genitore è proprio quello di essere sempre pronto ad accoglierlo, nel momento in cui c’è bisogno di lui, senza però essere eccessivamente presente quando non necessario.

Un bambino, può non essere capace di capire che le risposte inadeguate della madre possano essere attribuibili ad un’eventuale depressione del genitore, potrebbe, invece, ritenersi responsabile e colpevole, oltre che non meritevole di attenzione, questo potrebbe portare ad uno stile di attaccamento che mina la fiducia e l’autostima del bambino, che si ritiene, a torto, responsabile della scarsa sintonia emotiva materna.

Inoltre, lo stile di attaccamento diventa da adulti, il principale modo di relazionarsi con gli altri, specialmente con le figure affettivamente importanti. Conseguenza di ciò è la trasmissione da una generazione all’altra dello stile di attaccamento, infatti ragazze con stile di attaccamento sicuro, molto probabilmente avranno figli col medesimo stile, viceversa, i vissuti di esperienze inadeguate nella propria infanzia, possono tradursi in una scarsa sintonia materna con le emozioni del proprio bambino.

Ma le ripetizioni generazionali di precoci esperienze negative possono essere eliminate, e il ciclo svantaggioso interrotto, se il genitore acquisisce la capacità di rappresentare e riflettere in modo soddisfacente sull’esperienza mentale del bambino (Fonagy et al., 1994), la capacità dei genitori di seguire il pensiero dei bambini facilita in questi la comprensione generale dei pensieri mediati dall’attaccamento sicuro. La disponibilità di un genitore riflessivo aumenta la probabilità che nel bambino si sviluppi un attaccamento sicuro.

Se la capacità riflessiva mette il genitore in grado di comprendere con cura le attitudini intenzionali del bambino, il bambino avrà l’opportunità di “trovare se stesso nell’altro” come soggetto capace di mentalizzare. Se la capacità del genitore è carente sotto questo aspetto, la visione di sé che il bambino si formerà sarà quella di una persona concepita come pensante in termini di realtà fisica piuttosto che di stati mentali.

Esistono diversi sistemi messi a punto per evidenziare le diverse configurazioni di attaccamento, lo “Strange situation” elaborato dalla Ainsworth, consiste in una videoregistrazione delle interazioni tra mamma e bambino, nei suoi primissimi anni di vita, esso misura lo stress da separazione del bambino in situazione di breve assenza della madre, la prova dell’esistenza dell’attaccamento viene dalla ricerca di prossimità (o vicinanza), dal fenomeno della base sicura e dalla protesta per la separazione, distinguendo le diverse modalità comportamentali del bambino secondo il seguente schema:

Principali tipi di attaccamento e di risposta alla separazione

 Caratteristiche della risposta del bambino:

SICURO (TIPO B) Angoscia di separazione all’atto del distacco.

Al ritorno del genitore, saluta, riceve conforto e torna a giocare sereno.

INSICURO EVITANTE (TIPO A) Manifesta poca angoscia per la separazione,ignora la madre al momento della riunione e resta inibito nel gioco.

INSICURO-AMBIVALENTE (TIPO C) Fortemente angosciato dalla separazione, difficilmente tranquillizzato dalla riunione, cerca il contatto con rabbia e spesso respinge la madre; inibito il gioco esplorativo.

INSICURO-DISORGANIZZATO (TIPO D) Reagisce alla separazione con comportamenti molto confusi e disorganizzati.

Un bisogno fondamentale del bambino è quello di ritrovare i propri pensieri, le proprie intenzioni, nella mente del genitore. Per il bambino, l’internalizzazione di questa immagine esercita una funzione di “contenimento”, descritta da Winnicott come “restituire al bambino il proprio Sé”.

La rappresentazione del sé è sicura se il bambino si è sentito degno di ricevere amore, se le sue esigenze di conforto hanno avuto valore e significato per il genitore, e se hanno trovato il giusto spazio per esprimersi.

Il fallimento di questa funzione porta a una disperata ricerca di modalità alternative di contenere i pensieri e gli intensi sentimenti che essi generano.

Gli stili di attaccamento insicuri, nascono da una relazione con figure genitoriali non disponibili alle richieste di aiuto e conforto, rifiutanti, distanti e ostili, che disconfermano l’immagine del bambino, facendolo sentire come non meritevole di amore attenzione e affetto.

La ricerca di modalità alternative di contenimento mentale può produrre soluzioni patologiche, fra cui il prendere la mente dell’altro, come parte integrante del proprio senso di identità. Winnicott (1967) ha scritto: “Cosa vede il bambino quando guarda in faccia la madre?… Quando la madre guarda il bambino il modo in cui lei gli appare è legato a ciò che lei vede in lui… [ma cosa dire] del bambino la cui madre riflette il proprio stato d’animo o, ancora peggio, la rigidità delle sue stesse difese…? La madre e il bambino si guardano e il bambino non vede se stesso… ciò che vede è il volto della madre”.

Paradossalmente, quando la ricerca di rispecchiamento e contenimento del bambino non ha avuto esiti positivi, la successiva spinta verso la separazione darà luogo solo a un movimento verso la fusione.

Una madre “sufficientemente buona” secondo Winnicott, è in grado istintivamente, di sintonizzarsi con i bisogni del figlio, permettendo il crearsi di una zona intermedia che permette il graduale distacco del bambino dalla madre, riducendo la sensazione di “angoscia” provocato dalla separazione, l’esperienza di questa attendibilità materna, permette al bambino di sviluppare un senso di fiducia che caratterizza quella che Winnicott chiama la “terza area” o spazio potenziale che viene colmato dall’esperienza del gioco creativo che usa i simboli, e che si pone tra lo spazio soggettivo e lo spazio reale, e che col tempo diventa eredità culturale.

Winnicott descrive un’area intermedia di esperienza, rappresentata dallo spazio o dall’oggetto transizionale, che non appartiene ne’ alla realtà interna ne’ a quella esterna, che costituisce la maggior parte dell’esperienza del bambino e che per tutta la vita si esprime nelle arti e nel lavoro creativo.

“Nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna, il sollievo da questa tensione è provveduto da un’area intermedia di esperienza che non viene messa in dubbio. Questa area intermedia è in diretta continuità col gioco del bambino piccolo, che è perduto nel gioco”. (Winnicott)

Lo spazio potenziale non nega la separazione del lattante dalla madre, ma grazie al senso di fiducia acquisito, il bambino incomincia a stabilire un se’ autonomo, mentre in circostanze sfavorevoli, l’uso creativo degli oggetti viene a mancare, di conseguenza il vero sé viene occultato, lasciando il posto al falso sé compiacente.

La funzione di rispecchiamento materno, ha quindi secondo Winnicott, un ruolo decisivo per lo sviluppo del bambino, è necessario affinché l’adulto che diventerà, riesca ad esprimere in pieno gli aspetti della sua personalità.

Sulla costruzione del falso sé, Alice Miller afferma che bambini molto sensibili e particolarmente empatici per loro natura alle esigenze materne, potrebbero sviluppare false personalità, sacrificando l’emergere e il consolidarsi delle proprie potenzialità.

Una madre insicura sul piano emotivo che dipende per il proprio equilibrio narcisistico dal modo di essere del bambino, cui corrisponda una elevata capacità nel bambino di intuire e soddisfare questo bisogno, potrebbe generare bambini che diverranno “madri delle proprie madri” e quindi adulti il cui vero sé rimarrebbe imprigionato in un falso sé, perdendo contemporaneamente le loro potenzialità creative.

Chiara Miranda

Psicoterapeuta Gestalt Analitica

Bibliografia:

Bowlby John, Attaccamento e perdita-Bollati Boringhieri 1999;

Miller A., Il dramma del bambino dotato Ed. Bollati Boringhieri 1993;

Winnicott D.W., Gioco e realtà, Armando Editore 2004;

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