L’attaccamento.

bimbi

“Il comportamento di attaccamento è quella forma di comportamento che si manifesta in una persona che mantiene una prossimità nei confronti di un’altra, chiaramente identificata, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Questo comportamento diventa evidente ogni volta che la persona è spaventata, affaticata o malata, e si attenua quando si ricevono conforto e cure” (Bowlby, 1988).

Nella vita di ognuno di noi, lo stile di attaccamento si manifesta come un insieme di regole tacite e spesso inconsapevoli, che guidano il nostro comportamento, al fine del raggiungimento di un obiettivo.

Alla nascita, il lattante si sente intimamente fuso con la madre dalla quale dipende la sua sopravvivenza, egli si aspetta che ogni suo bisogno venga soddisfatto senza interferenze, nei brevi momenti di separazione dalla madre, può provare una enorme angoscia legata al timore che venga messa in pericolo la sua stessa vita.

Per un bambino, la figura dell’adulto di riferimento, è essenziale perché col necessario sostegno, garantisce sicurezza fisica e psichica. Questo sostegno costituisce la “base sicura” dalla quale il bambino può partire per la sua esplorazione del mondo esterno, egli inoltre sa che può tornarvi in qualunque momento, perché sarà sempre accolto amorevolmente, consolato se triste, rassicurato se spaventato. Il ruolo del genitore è proprio quello di essere sempre pronto ad accoglierlo, nel momento in cui c’è bisogno di lui, senza però essere eccessivamente presente quando non necessario.

Un bambino, può non essere capace di capire che le risposte inadeguate della madre possano essere attribuibili ad un’eventuale depressione del genitore, potrebbe, invece, ritenersi responsabile e colpevole, oltre che non meritevole di attenzione, questo potrebbe portare ad uno stile di attaccamento che mina la fiducia e l’autostima del bambino, che si ritiene, a torto, responsabile della scarsa sintonia emotiva materna.

Inoltre, lo stile di attaccamento diventa da adulti, il principale modo di relazionarsi con gli altri, specialmente con le figure affettivamente importanti. Conseguenza di ciò è la trasmissione da una generazione all’altra dello stile di attaccamento, infatti ragazze con stile di attaccamento sicuro, molto probabilmente avranno figli col medesimo stile, viceversa, i vissuti di esperienze inadeguate nella propria infanzia, possono tradursi in una scarsa sintonia materna con le emozioni del proprio bambino.

Ma le ripetizioni generazionali di precoci esperienze negative possono essere eliminate, e il ciclo svantaggioso interrotto, se il genitore acquisisce la capacità di rappresentare e riflettere in modo soddisfacente sull’esperienza mentale del bambino (Fonagy et al., 1994), la capacità dei genitori di seguire il pensiero dei bambini facilita in questi la comprensione generale dei pensieri mediati dall’attaccamento sicuro. La disponibilità di un genitore riflessivo aumenta la probabilità che nel bambino si sviluppi un attaccamento sicuro.

Se la capacità riflessiva mette il genitore in grado di comprendere con cura le attitudini intenzionali del bambino, il bambino avrà l’opportunità di “trovare se stesso nell’altro” come soggetto capace di mentalizzare. Se la capacità del genitore è carente sotto questo aspetto, la visione di sé che il bambino si formerà sarà quella di una persona concepita come pensante in termini di realtà fisica piuttosto che di stati mentali.

Esistono diversi sistemi messi a punto per evidenziare le diverse configurazioni di attaccamento, lo “Strange situation” elaborato dalla Ainsworth, consiste in una videoregistrazione delle interazioni tra mamma e bambino, nei suoi primissimi anni di vita, esso misura lo stress da separazione del bambino in situazione di breve assenza della madre, la prova dell’esistenza dell’attaccamento viene dalla ricerca di prossimità (o vicinanza), dal fenomeno della base sicura e dalla protesta per la separazione, distinguendo le diverse modalità comportamentali del bambino secondo il seguente schema:

Principali tipi di attaccamento e di risposta alla separazione

 Caratteristiche della risposta del bambino:

SICURO (TIPO B) Angoscia di separazione all’atto del distacco.

Al ritorno del genitore, saluta, riceve conforto e torna a giocare sereno.

INSICURO EVITANTE (TIPO A) Manifesta poca angoscia per la separazione,ignora la madre al momento della riunione e resta inibito nel gioco.

INSICURO-AMBIVALENTE (TIPO C) Fortemente angosciato dalla separazione, difficilmente tranquillizzato dalla riunione, cerca il contatto con rabbia e spesso respinge la madre; inibito il gioco esplorativo.

INSICURO-DISORGANIZZATO (TIPO D) Reagisce alla separazione con comportamenti molto confusi e disorganizzati.

Un bisogno fondamentale del bambino è quello di ritrovare i propri pensieri, le proprie intenzioni, nella mente del genitore. Per il bambino, l’internalizzazione di questa immagine esercita una funzione di “contenimento”, descritta da Winnicott come “restituire al bambino il proprio Sé”.

La rappresentazione del sé è sicura se il bambino si è sentito degno di ricevere amore, se le sue esigenze di conforto hanno avuto valore e significato per il genitore, e se hanno trovato il giusto spazio per esprimersi.

Il fallimento di questa funzione porta a una disperata ricerca di modalità alternative di contenere i pensieri e gli intensi sentimenti che essi generano.

Gli stili di attaccamento insicuri, nascono da una relazione con figure genitoriali non disponibili alle richieste di aiuto e conforto, rifiutanti, distanti e ostili, che disconfermano l’immagine del bambino, facendolo sentire come non meritevole di amore attenzione e affetto.

La ricerca di modalità alternative di contenimento mentale può produrre soluzioni patologiche, fra cui il prendere la mente dell’altro, come parte integrante del proprio senso di identità. Winnicott (1967) ha scritto: “Cosa vede il bambino quando guarda in faccia la madre?… Quando la madre guarda il bambino il modo in cui lei gli appare è legato a ciò che lei vede in lui… [ma cosa dire] del bambino la cui madre riflette il proprio stato d’animo o, ancora peggio, la rigidità delle sue stesse difese…? La madre e il bambino si guardano e il bambino non vede se stesso… ciò che vede è il volto della madre”.

Paradossalmente, quando la ricerca di rispecchiamento e contenimento del bambino non ha avuto esiti positivi, la successiva spinta verso la separazione darà luogo solo a un movimento verso la fusione.

Una madre “sufficientemente buona” secondo Winnicott, è in grado istintivamente, di sintonizzarsi con i bisogni del figlio, permettendo il crearsi di una zona intermedia che permette il graduale distacco del bambino dalla madre, riducendo la sensazione di “angoscia” provocato dalla separazione, l’esperienza di questa attendibilità materna, permette al bambino di sviluppare un senso di fiducia che caratterizza quella che Winnicott chiama la “terza area” o spazio potenziale che viene colmato dall’esperienza del gioco creativo che usa i simboli, e che si pone tra lo spazio soggettivo e lo spazio reale, e che col tempo diventa eredità culturale.

Winnicott descrive un’area intermedia di esperienza, rappresentata dallo spazio o dall’oggetto transizionale, che non appartiene ne’ alla realtà interna ne’ a quella esterna, che costituisce la maggior parte dell’esperienza del bambino e che per tutta la vita si esprime nelle arti e nel lavoro creativo.

“Nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna, il sollievo da questa tensione è provveduto da un’area intermedia di esperienza che non viene messa in dubbio. Questa area intermedia è in diretta continuità col gioco del bambino piccolo, che è perduto nel gioco”. (Winnicott)

Lo spazio potenziale non nega la separazione del lattante dalla madre, ma grazie al senso di fiducia acquisito, il bambino incomincia a stabilire un se’ autonomo, mentre in circostanze sfavorevoli, l’uso creativo degli oggetti viene a mancare, di conseguenza il vero sé viene occultato, lasciando il posto al falso sé compiacente.

La funzione di rispecchiamento materno, ha quindi secondo Winnicott, un ruolo decisivo per lo sviluppo del bambino, è necessario affinché l’adulto che diventerà, riesca ad esprimere in pieno gli aspetti della sua personalità.

Sulla costruzione del falso sé, Alice Miller afferma che bambini molto sensibili e particolarmente empatici per loro natura alle esigenze materne, potrebbero sviluppare false personalità, sacrificando l’emergere e il consolidarsi delle proprie potenzialità.

Una madre insicura sul piano emotivo che dipende per il proprio equilibrio narcisistico dal modo di essere del bambino, cui corrisponda una elevata capacità nel bambino di intuire e soddisfare questo bisogno, potrebbe generare bambini che diverranno “madri delle proprie madri” e quindi adulti il cui vero sé rimarrebbe imprigionato in un falso sé, perdendo contemporaneamente le loro potenzialità creative.

Chiara Miranda

Psicoterapeuta Gestalt Analitica

Bibliografia:

Bowlby John, Attaccamento e perdita-Bollati Boringhieri 1999;

Miller A., Il dramma del bambino dotato Ed. Bollati Boringhieri 1993;

Winnicott D.W., Gioco e realtà, Armando Editore 2004;

Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.

 

 

 

Il simbolo e il segno

L’impossibilità di definire il simbolo con la logica della ragione testimonia un’impossibilità linguistica intimamente connessa all’incapacità della ragione di parlare senza sopprimere la fonte stessa del suo linguaggio.1

(Umberto Galimberti)

Nel linguaggio comune, spesso i termini segno e simbolo, sono usati come sinonimi, ma essi hanno significati molto diversi.

Il segno è la relazione tra significante e significato, ovvero il rapporto tra l’espressione ed il suo contenuto, la scolastica lo definisce “qualcosa che sta per qualcos’altro”, usiamo il segno per trasmettere un’informazione, e quindi i segni sono definiti da convenzioni che li rendono adeguati a comunicare.

Nel greco, il termine “simbolo” sta per “mettere assieme”, esso evoca l’esistenza di una realtà altra che va ricomposta. In teologia le operazioni simboliche servono a colmare il divario tra lettera e spirito, le sacre scritture sono fonte di innumerevoli interpretazioni, l’uso di allegorie, riesce a rendere i contenuti comunicabili, condivisibili, ma l’uso della simbologia, non avendo un codice univoco di lettura lascia aperte infinite possibilità interpretative.

Per questo motivo il simbolo non è mai significante, ma le parole che scaturiscono dal simbolo lo sono. Corbin2 afferma che “Il simbolo non è un segno artificialmente costruito, ma è ciò che nell’anima spontaneamente si schiude per annunciare qualcosa che non può essere espresso altrimenti”. Anche Lévi-Strauss nel suo “Teoria generale della magia e altri saggi”3afferma l’irriducibilità del simbolo al segno, egli racconta che, presso alcuni popoli primitivi, con l’uso della parola “mana” si intende forza, ma anche azione o qualità, essa può essere contemporaneamente verbo, sostantivo e aggettivo, perchè è pura forma, è simbolo, e come tale può assumere qualsiasi contenuto.

Fermamente convinto della differenza profonda esistente tra simbolo e segno, Jung afferma che un segno “ha un significato fisso, essendo un’abbreviazione (convenzionale) che sta per una cosa conosciuta oppure è un rimando a quella cosa medesima”, invece, il simbolo indica un contenuto polisemico, non definibile e non convenzionale, esso “possiede numerose varianti analoghe, e più ne ha a disposizione tanto più completa e appropriata è l’immagine che abbozza del suo soggetto”4. Il simbolo è vivo per Jung solo finchè mantiene questa caratteristica, egli rappresenta tensione tra opposti, tra conscio e inconscio, tra noto e non noto, nel momento in cui il simbolo partorisce il suo significato, muore e si trasforma in segno. Dando un nome alle cose che non conosciamo ancora, compiamo “un’azione storica di assegnazione di significati”, in tal modo, il simbolo esce dal regno della magia per entrare in quello delle convenzioni, esaurisce la sua funzione di mediatore e muore.

Ogni fenomeno psicologico, per Jung è un simbolo, in quanto si suppone che significhi qualcosa che si sottrae alla nostra coscienza, ma ciò dipende anche dall’atteggiamento di chi osserva, per Jung infatti, non esistono contenuti simbolici se non per una coscienza che li crea, il simbolo non è un significato, ma un’azione che mantiene in tensione gli opposti dalla cui composizione possono nascere i processi trasformativi.

Molto diverso dal concetto di simbolo freudiano, che ha una funzione omeostatica, ovvero di ritrovare un equilibrio turbato, la funzione del simbolo junghiano è ana-omeostatica, esso suscita tensione, spinta in avanti, apre nuovi livelli energetici proteso verso un equilibrio che è sempre “oltre”, ha dunque una funzione trasformatrice.

Il simbolo è legato al concetto di archetipo, l’archetipo si può definire come un principio organizzatore della realtà a diversi livelli (culturale, sociale, biologico), esso è espressione dell’inconscio collettivo e se compare in un sogno, ha un che di numinoso, una forte carica emotiva. Il Sé è un esempio di archetipo e rappresenta l’unione degli opposti, la somma di conscio ed inconscio che si integrano nel simbolo, è quindi il centro della personalità che ha la funzione di regolatore dell’equilibrio psichico. Il simbolo è quindi, una rappresentazione archetipica fornita di energia, la sua “numinosità” proviene dall’archetipo ordinatore, che consente la trasposizione di valori psichici da un contenuto ad un altro.

 Dott.ssa Chiara Miranda

Psicologa Psicoterapeuta Gestalt Analitica

Licenza Creative Commons
Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.

1Galimberti U. “Paesaggi dell’anima” Saggi Mondadori Pag.26
2Corbin H. “Storia della filosofia islamica” Adelphi Pag.29

3Lévi-Strauss “Teoria generale della magia e altri saggi” Einaudi

4Carl G. Jung “Simboli della trasformazione” in Opere, Bollati Boringieri pag.128.

Bibliografia:

Aldo Carotenuto “Trattato di psicologia analiticaEd. UTET;

Carl G. Jung “Simboli della trasformazione” in Opere, Bollati Boringieri 1999;

Umberto Galimberti “Le Garzantine” Psicologia Garzanti 2005;

Umberto Galimberti “Paesaggi dell’anima” Oscar saggi Mondadori 1996.