L’arte di narrare

L’unico problema dell’arte è raggiungere un equilibrio tra il soggettivo e l’oggettivo…l’arte ha dimostrato che l’espressione universale può essere creata soltanto da una reale corrispondenza tra universale e individuale”

(Mondrian)

Le tecniche espressive artistiche, possono essere un valido strumento di recupero del rapporto tra dentro e fuori, tra soggettivo ed oggettivo, permettendo lo svolgersi di un’ esperienza attraverso la quale il sé possa rispecchiarsi, emergere dall’informe per divenire parte integrante della personalità.

Vicino all’ idea dell’arte che cura, in particolare all’arte di narrare, è James Hillman, egli ritiene che la mente sia fondata nella sua stessa attività narrativa, dove si svelano gli Dei, modelli permanenti del nostro agire, e la capacità della psicoterapia di guarire dipende dalla sua capacità di continuare a ri-raccontarsi, di mantenere vivo il flusso delle immagini1, ascoltare le voci dell’anima, la terapia è un racconto rivolto all’ artista che è nel terapeuta e al terapeuta che è nell’artista.

Per Adler, la storia narrata dal paziente è un tentativo di dare una risposta ad una domanda: “cosa vuole l’anima?” egli afferma che ”l’anima vuole perché la sua causa finale, il suo telos, deve rimanere inadempiuto. Ogni suo movimento possiede per sua natura un fine, e tuttavia questa intenzionalità non può essere formulata”2

Nell’aspirazione ad emergere, la psiche inventa immagini e la mente la segue, ma la meta non è definita perché la via è la meta e noi siamo guariti quando la nostra meta diventa la nostra storia e noi la riconosciamo come tale.

La ricerca di senso dell’uomo è ricerca della sua anima come scintilla divina, come ritorno all’unità che era all’origine, con “Le storie che curano”, Hillman ci invita a considerare la base poetica della mente, a verificarne le profondità, abbandonandoci alle sue immagini per restituire alla terapia il “senso del vivere e del morire all’interno di un cosmo immaginale”.3

”É sempre un regalo dell’anima che apre la strada alla realizzazione del Sé. L’anima suscitatrice di illusioni, sa anche darci ciò che speriamo, ciò che immaginiamo…É l’inutilità della psicoterapia a guarire i sintomi…a farmi sperare nella potenzialità eversiva di una pratica di essa che accetti di procedere ambiguamente tra scienza e arte. Nella tensione verso l’unità e la totalità della psiche…si realizza infatti la dimensione estetica dell’analisi”.

(Basilio Reale)4

Scrive Umberto Galimberti:”Il rimosso della nostra civiltà non è l’istinto, ma il simbolo, per la sua capacità di trascendere la realtà codificata”, la terapia che usa lo strumento artistico e quindi simbolico ed estetico, permette di creare una “forma” in cui l’emozione possa essere contenuta ed espressa, in cui le rotture di senso del paziente possano essere trasformate in un dolore che si possa guardare.

“L’impossibilità di definire il simbolo con la logica della ragione testimonia un’impossibilità linguistica intimamente connessa all’incapacità della ragione di parlare senza sopprimere la fonte stessa del suo linguaggio. Ma un linguaggio costruito sulla rimozione di questa fonte è un linguaggio a cui mancano le parole per esprimerla e questa carenza non è semplice povertà linguistica, ma è essa stessa un evento simbolico, l’evento della sua dimenticanza”.5

1 Hillman afferma che il modo in cui immaginiamo e raccontiamo la nostra vita è anche il modo in cui ci apprestiamo a viverla, le nostre immagini interiori si trasformano in realtà, lo stile narrativo del paziente è fondamentale per l’analista che vuole comprenderlo profondamente, egli dice che si dovrebbero leggere i casi clinici con grande attenzione alla loro forma, al ritmo, alle metafore, perchè gli archetipi non si trovano solo nel contenuto.
2 Hillman J. Le storie che curano Raffaello Cortina Editore 2004 pag.139
3 op. cit. pag. VI (della prefazione)
4 Basilio Reale Le Macchie di Leonardo Ed.Moretti &Vitali 1998 pag.55
5 Galimberti U. Paesaggi dell’anima Arnaldo Mondadori Editore 1996 pag.26

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Il simbolo e il segno

L’impossibilità di definire il simbolo con la logica della ragione testimonia un’impossibilità linguistica intimamente connessa all’incapacità della ragione di parlare senza sopprimere la fonte stessa del suo linguaggio.1

(Umberto Galimberti)

Nel linguaggio comune, spesso i termini segno e simbolo, sono usati come sinonimi, ma essi hanno significati molto diversi.

Il segno è la relazione tra significante e significato, ovvero il rapporto tra l’espressione ed il suo contenuto, la scolastica lo definisce “qualcosa che sta per qualcos’altro”, usiamo il segno per trasmettere un’informazione, e quindi i segni sono definiti da convenzioni che li rendono adeguati a comunicare.

Nel greco, il termine “simbolo” sta per “mettere assieme”, esso evoca l’esistenza di una realtà altra che va ricomposta. In teologia le operazioni simboliche servono a colmare il divario tra lettera e spirito, le sacre scritture sono fonte di innumerevoli interpretazioni, l’uso di allegorie, riesce a rendere i contenuti comunicabili, condivisibili, ma l’uso della simbologia, non avendo un codice univoco di lettura lascia aperte infinite possibilità interpretative.

Per questo motivo il simbolo non è mai significante, ma le parole che scaturiscono dal simbolo lo sono. Corbin2 afferma che “Il simbolo non è un segno artificialmente costruito, ma è ciò che nell’anima spontaneamente si schiude per annunciare qualcosa che non può essere espresso altrimenti”. Anche Lévi-Strauss nel suo “Teoria generale della magia e altri saggi”3afferma l’irriducibilità del simbolo al segno, egli racconta che, presso alcuni popoli primitivi, con l’uso della parola “mana” si intende forza, ma anche azione o qualità, essa può essere contemporaneamente verbo, sostantivo e aggettivo, perchè è pura forma, è simbolo, e come tale può assumere qualsiasi contenuto.

Fermamente convinto della differenza profonda esistente tra simbolo e segno, Jung afferma che un segno “ha un significato fisso, essendo un’abbreviazione (convenzionale) che sta per una cosa conosciuta oppure è un rimando a quella cosa medesima”, invece, il simbolo indica un contenuto polisemico, non definibile e non convenzionale, esso “possiede numerose varianti analoghe, e più ne ha a disposizione tanto più completa e appropriata è l’immagine che abbozza del suo soggetto”4. Il simbolo è vivo per Jung solo finchè mantiene questa caratteristica, egli rappresenta tensione tra opposti, tra conscio e inconscio, tra noto e non noto, nel momento in cui il simbolo partorisce il suo significato, muore e si trasforma in segno. Dando un nome alle cose che non conosciamo ancora, compiamo “un’azione storica di assegnazione di significati”, in tal modo, il simbolo esce dal regno della magia per entrare in quello delle convenzioni, esaurisce la sua funzione di mediatore e muore.

Ogni fenomeno psicologico, per Jung è un simbolo, in quanto si suppone che significhi qualcosa che si sottrae alla nostra coscienza, ma ciò dipende anche dall’atteggiamento di chi osserva, per Jung infatti, non esistono contenuti simbolici se non per una coscienza che li crea, il simbolo non è un significato, ma un’azione che mantiene in tensione gli opposti dalla cui composizione possono nascere i processi trasformativi.

Molto diverso dal concetto di simbolo freudiano, che ha una funzione omeostatica, ovvero di ritrovare un equilibrio turbato, la funzione del simbolo junghiano è ana-omeostatica, esso suscita tensione, spinta in avanti, apre nuovi livelli energetici proteso verso un equilibrio che è sempre “oltre”, ha dunque una funzione trasformatrice.

Il simbolo è legato al concetto di archetipo, l’archetipo si può definire come un principio organizzatore della realtà a diversi livelli (culturale, sociale, biologico), esso è espressione dell’inconscio collettivo e se compare in un sogno, ha un che di numinoso, una forte carica emotiva. Il Sé è un esempio di archetipo e rappresenta l’unione degli opposti, la somma di conscio ed inconscio che si integrano nel simbolo, è quindi il centro della personalità che ha la funzione di regolatore dell’equilibrio psichico. Il simbolo è quindi, una rappresentazione archetipica fornita di energia, la sua “numinosità” proviene dall’archetipo ordinatore, che consente la trasposizione di valori psichici da un contenuto ad un altro.

 Dott.ssa Chiara Miranda

Psicologa Psicoterapeuta Gestalt Analitica

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1Galimberti U. “Paesaggi dell’anima” Saggi Mondadori Pag.26
2Corbin H. “Storia della filosofia islamica” Adelphi Pag.29

3Lévi-Strauss “Teoria generale della magia e altri saggi” Einaudi

4Carl G. Jung “Simboli della trasformazione” in Opere, Bollati Boringieri pag.128.

Bibliografia:

Aldo Carotenuto “Trattato di psicologia analiticaEd. UTET;

Carl G. Jung “Simboli della trasformazione” in Opere, Bollati Boringieri 1999;

Umberto Galimberti “Le Garzantine” Psicologia Garzanti 2005;

Umberto Galimberti “Paesaggi dell’anima” Oscar saggi Mondadori 1996.