La fotografia

“La fotografia appartiene a quella classe di oggetti fatti di strati sottili di cui non è possibile separare i due foglietti senza distruggerli: il vetro e il paesaggio, il bene e il male, il desiderio e il suo oggetto: tutte dualità che è possibile concepire ma non cogliere” 1
(Roland Barthes)

La Fotografia intesa come arte è nello sguardo, nell’attenzione dell’artista che si posa su un oggetto materiale che assume in quell’istante la valenza della rivelazione, dell’assoluto e che prende le distanze dai significati quotidiani che quell’oggetto riveste.

Il nostro sguardo cerca con impazienza e non trova nulla, perché sono le cose che trovano noi, è l’essenza delle cose che ci richiama, che ci risveglia dal torpore della quotidianità. In un attimo, la nostra attenzione è rapita e noi sappiamo che quell’attimo è eterno, ma che non riusciremo a contenerlo a trattenerlo perché è solo un piccolissimo pezzetto di eternità che ci è concesso di contemplare, allora cerchiamo di fermarlo in uno scatto, come se volessimo tenerlo con noi per sempre.

Ma non è così semplice, “l’artista fotografo sceglie intuitivamente il momento che gli sembra corrispondere ad una sua forma-immagine dell’oggetto”2, ma è nella fase di stampa il momento fondamentale per la creazione estetica della fotografia, è nella stampa che l’immagine percepita dal fotografo diventa una “forma-simbolo”, l’immagine affiora sulla carta immersa nello sviluppo, così come affiora alla coscienza.

Il linguaggio fotografico usa la luce e l’ombra, la Fotografia in bianco e nero conosce solo questi due opposti con in mezzo tutte le sfumature del grigio.

La materia della fotografia si chiama grana, essa è costituita tecnicamente dai granuli d’argento di cui è composta l’emulsione fotosensibile e corrisponde ad un segno puntiforme visibile sia sulla stampa che sul negativo: “dal punto di vista del linguaggio la grana ha una sua propria immagine”3.

È la grana che crea l’immagine durante la stampa, è la sua “saturazione”, o “desaturazione” che crea la forma, come un’impronta lasciata dalla luce che s’imprime prima sul negativo e poi sulla carta sensibile.

L’artista nel suo processo estetico opera un’astrazione dalla realtà ponendo l’immagine in una dimensione fuori dal tempo, come presenza pura.

“L’organizzazione della forma da parte dell’artista tende a ricreare, con le modalità proprie al linguaggio della Fotografia, mediate dalla cultura e dalla tradizione storica, quella identificazione totale originaria che rappresenta il momento di sintesi congnitiva con la quale l’Occhio conosce, a suo modo, la verità delle cose, come manifestazione, cioè, di una pura presenza.”4

(Paolo Dell’Elce)

La fotografia è tecnica ma è anche e soprattutto poesia, narrazione dei nostri contenuti personali inconsapevoli, che cercano uno specchio che li rifletta, questi contenuti essendo parte della nostra anima, non sono solo nostri, ma appartengono all’universalità, al mondo che Jung chiama il mondo degli “archetipi”, per questo la fotografia come arte, produce risonanza nelle persone sensibili al suo linguaggio, perché è una risonanza universale.

Attraverso il mondo delle immagini, Jung cerca di dare una risposta al motto socratico “conosci te stesso”, egli afferma che “ogni accadimento psichico è un’immagine” le immagini sono il materiale stesso che costituisce le nostre anime, ogni cosa giunge alla nostra coscienza mediata da questo fattore poetico ancestrale. Tutto ciò che ci diciamo sul mondo, sugli altri su noi è influenzato da immagini archetipiche di fantasia, dove abitano Dei, demoni ed eroi, tutta l’esistenza è strutturata dall’immaginazione, “la psiche crea giorno per giorno la realtà”5

Hillman confronta il pensiero di Jaspers con quello di Jung, mentre il primo riesce a concepire solo un sistema di opposti: spirito e materia, filosofia e scienza, Dio e Natura, mente e corpo, Jung riprendendo da Platone il concetto di terzo regno, parla di un regno intermedio:”l’essere nell’anima”, che fa da mediatore tra i due mondi di Jaspers, l’anima mediatrice permette una sospensione tra reale e irreale, un ponte tra spirito e materia, dove le immagini sono il suo proprio linguaggio.

Il lavoro terapeutico che usa l’immagine parla il linguaggio metaforico e analogico dell’anima, e agendo attraverso il regno intermedio della psiche, consente all’inconscio di manifestarsi.

Jung6 afferma però che l’immaginazione attiva non è una prova artistica, pur essendo un lavoro estetico, il suo fine non è il prodotto, ma la conoscenza di sé, che è al tempo stesso il suo limite, il limite dell’interminabilità, che corrisponde all’interminabilità della psiche stessa,

1 Barthes R. La camera chiara Giulio Einaudi Editore 1980 pag.8
2 Paolo Dell’Elce, L’Occhio Primordiale, appunti per una poetica della Fotografia, Ed. Noubs 1998. Pag.38
3 Op. cit. pag. 18
4 Op. cit. pag. 13
5 Hillman op. cit. pag.97
6 Hillman op. cit. pag.103-104
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L’immaginario nella psicoterapia

 

Nel suo saggio “L’immaginario in azione nella psicoterapia infantile” l’autrice racconta una psicoterapia svolta con un suo piccolo paziente, che presentava seri disturbi comportamentali e evidenti difficoltà a raccontarsi, l’uso creativo della plastilina consente il nascere di forme che diventano personaggi che agiscono in una storia, permettendo il passaggio dall’agire le emozioni, al racconto, alla narrazione: ”avevo tradotto in parole l’azione che si era svolta e le parole rendevano l’immagine…nel sostituire progressivamente le parole alle grida e nel tollerare che io traducessi le (sue) azioni in parole, Joel aveva effettuato un’ulteriore azione di distanziamento e simbolizzazione…restituivo a Joel una storia che aveva un filo conduttore, un senso, una memoria, ….. dopo un momento di silenzio mi dice – allora l’ho scritto io!…sono io questo!”1

E’ evidente la funzione di specchio che il bambino è riuscito trovare nello spazio terapeutico e l’importanza che questa funzione ha svolto nel suo divenire consapevole di sé e quindi la possibilità di lavorare su questa consapevolezza, ma l’uso della materia informe è stato il passaggio cruciale per far si che le emozioni manifestate in maniera disorganizzata e caotica all’inizio della terapia, diventassero ordinate in un racconto, il racconto della vita di Joel.

A differenza della Klein, che utilizzava i disegni dei bambini per interpretarli, l’autrice, vicina al pensiero di Winnicott, utilizza lo spazio creativo per permettere alla storia personale del paziente di emergere e di prendere forma posticipando l’interpretazione alla fine della terapia, ancora una volta “la via è la meta”, il fine non è l’interpretazione2, ma il dispiegarsi narrativo della storia del paziente.

1 Fabre N. L’immaginario in azione nella psicoterapia infantile Ed. Magi 2004 pag.99
2 Winnicott afferma che nelle consultazioni terapeutiche, il momento significativo è quello in cui il bambino sorprende se stesso, non è il momento dell’interpretazione. L’interpretazione data fuori dalla compiutezza del materiale, produce compiacenza , solo se vi è un gioco spontaneo e non compiacente, l’interpretazione può far progredire il lavoro terapeutico.

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